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lirica, indicando loro i libri da consultare. Fu questo il tema di parecchi componimenti. Uno scrisse sul culto della donna, un altro sui concetto dell’amore platonico, un terzo sopra. Beatrice e sopra Laura. Vi furono lavori di qualche importanza, e discussioni interessanti. Le lezioni sulla lirica di Dante parvero una rivelazione. Conoscevamo la Divina Commedia a menadito; ma quella lirica era nuova a me e a loro. Mi capitò un esemplare muffito, macchiato e di caratteri antichi, che irritavano l’occhio. Certi sonetti mi fecero venir le grinze al naso: «Che roba è questa?» Mi pareva fra Guittone e fra Jacopone. Mi venne il sospetto d’interpolazioni o di falsificazioni. Poi mi furono innanzi sonetti vivi e freschi, che parevano scritti oggi: «Questa è poesia per tutti i secoli!» Feci notare che i sonetti buoni avevano a base un fatto concreto e una situazione determinata, con accordo di stile e di accento e di colore, e non vi comparivano le sottigliezze e i luoghi comuni del secolo. La canzone della visione della morte di Beatrice, e l’altra sulle tre suore destarono viva ammirazione, e parvero i monumenti più importanti della nostra lirica. M’è ancora presente il fremito di tutta la scuola, quando dissi:

...non sai novella?
Morta è la donna tua ch’era si bella;
e quando lessi:
... Morte, assai dolce ti tegno:
Tu dèi ornai esser cosa gentile,
Poiché tu se’ nella mia donna stata.
Fu anche applaudito il verso:
L’esilio che m’è dato onor mi tegno.

La semplice lettura destava questi entusiasmi. Solevo però prepararli, riempiendo le lacune della situazione e notando le idee accessorie, che fermentavano nel cervello del poeta, condensate in sintesi gravide, solevo dire, piene di cose. Critica pericolosa; ma ci riuscivo, perché, come un bravo attore, dimen-