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ix. 1817 - nuovi studi | 65 |
Anche a me breve corso il ciel misura; E pur di mia giornata Son presso a l’alba, né di morte ho cura, Ché qual mai visse più, quei visse poco, E chi diritto guata, Nostra famiglia a la natura è gioco. |
Così pure è l’apoteosi della gioventù, la cui candidezza non si conserva nelle altre età per il malo esempio, perché il mondo è «scellerata cosa»:
E quel mal che non osa Candida gioventù, è scherzo al vile Senno d’età provetta, E nefanda vecchiezza; e in cor gentile Quel che natura fe’ spegne l’esempio. |
Lo sparire della beltà e della giovinezza, la potenza del fato, la candidezza della gioventù, il pervertimento dell’uomo nell’età matura, il contrasto, tra il vedere o l’intendere, e il sentire, sono concetti fondamentali di questa canzone, e quasi i germi da cui uscirà il mondo poetico leopardiano. Ma sono concetti presi ad imprestito e con forme petrarchesche.
Certo, la scelta di un argomento così triste e di concetti simili mostra nel giovane una disposizione a questa maniera di poesia. Ma non ce n’è ancora la consapevolezza, né il sentimento, e non esce ancora dai libri, né dalle reminiscenze. I concetti rimangono cristallizzati in sentenze ben verseggiate, e non hanno sviluppo e non hanno presa sul cuore.
Le immagini sono comuni, e vaganti nella generalità; le forme allungate e convenzionali, talora disgraziate e disarmoniche, come: «di lagrimarla io non fo posa», — «la tua bella faccia poco può che per sempre a noi s’involi», — «se ’l veder non erra», — «mi sembra aperto», — «core di malizia speco e di
5 — De Sanctis, Leopardi. |