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44 | giacomo leopardi |
le immagini le une nelle altre, e tutto fonde e tutto ti offre simultaneo.
Ora, il Caro, traducendo, fa proprio il contrario e guasta tutta questa idealità della forma virgiliana.
Quella potente parola latina che dice tante cose nel suo indeterminato, egli l’analizza, la spiega e la descrive, e le toglie così ogni prestigio ed ogni elasticità.
Fa pena vedere diluita in epiteti quasi sinonimi quella eloquente unità, e fissate le immagini e i sentimenti che ti fluttuano al di dentro della parola latina. Questo è appunto spoetizzare la parola e ridurla vil prosa. «Intentique ora tenebant». Si capisce ch’era per desiderio di sentire. Pure, il Caro crede utile la spiegazione e traduce: «Attenti e desiosi d’udir». «Dolorem infandum» è tradotto: «dogliosa istoria». Dov’è quel terribile «infandum»? E quel «dolorem», in cui cade e si appunta il verso, quel «dolorem» che legato a quell’«infandum», investe e domina tutto il verso, eccolo qui, è svaporato in un epiteto: «dogliosa istoria». E così il «renovare» analizzato diviene «amara e orribil rimembranza», il «lamentabile» è tradotto: «di pietà degna e di pianto»; l’«eruerint Danai», che domina il periodo ed esprime quel primo impeto e furore greco, cade in luogo secondario e in forma passiva: «per man de’ greci arsa e distrutta»; quel «miserrima», così pieno di sospiri e di immagini, è «ruina e scempio»; e quel divino «suadent cadentia sidera somnos», quel dolce e inconsapevole insinuarsi del sonno? Oimè!
e già le stelle Sonno, dal ciel caggendo, agli occhi infondono! |
Fino quel modesto e semplice «incipiam» è analizzato e diviene: «io lo pur conterò». Così quella ideale forma pregnante e inviolabile il prosaico ostetrico me l’ha tradotta, e ne ha cavato un aborto. L’immaginazione metteva entro a quella tante cose.