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vi. 1817 - l’«eneide» 43
Infandum, regina, iubes renovare dolorem,
Trojanas ut opes et lamentabile regnum
Eruerint Danai, quœque ipse miserrima vidi,
Et quorum pars magna fui. Quis talia fando...
Temperet a lacrymis?

E il verso si ferma a mezzo come un singhiozzo che rompa la parola. Enea non può continuare subito, ha gli occhi umidi, è commosso:

                                             Et jam nox humida cœlo
Praecipitat, suadentque cadentia sidera somnos.

È notte, cadono le stelle, è così dolce il sonno e l’oblio. «Animus horret, luctu refugit.» Eppure «amor», l’interesse della regina per lui e la sua patria, lo fa parlare:

Sed si tantus amor nostros cognoscere casus
Et breviter Trojæ supremum audire laborem.
Quamquam animus meminisse horret luctuque refugit,
Incipiam.

L’impressione che ti viene da questa musica è che tu ti senti immediatamente trasportare in regioni indefinite, tra dolci armonie e melanconie, le più dolci che abbiano mai lusingato orecchio e cuor d’uomo. E nasce non pure dalla solennità sempre eguale di tono e di accento e di armonia severa insieme ed elevata, ma da quella forma plastica e condensata, pregna di lagrime e di sottintesi, sì che la parola, oltre il suo senso materiale, te ne offre tanti altri all’immaginazione, come l’«infandum dolorem» il «lamentabile regnum», l’«eruerint Danai», il «tantus amor», il «luctu refugit».

L’impressione è unica, uguale, non sparpagliata nelle parti, raccolta e concentrata nel tutto, attesa una mirabile fusione di tinte e di oggetti, quasi sulla stessa tela, tutto insieme allo sguardo, come in quel «quœque ipse miserrima vidi». Effetti possibili soprattutto a quella potente forma latina, sintetica e insieme trasparente, e che per audacia di trasposizioni incorpora