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Pure, se quei versi hanno buona e corretta struttura, non si può dir che sieno sempre corretti, quanto al ritmo. Perché nel verso non si ha a notare solo il numero delle sillabe e la sede degli accenti; sì ha a guardare anche la misura del tempo, ciò che dicesi propriamente ritmo. E appunto perché qui non c’è regola come in greco e in latino, gli è più difficile giudice l’orecchio e il senso artistico.

        Non c’è orecchio così male esercitato, e non senso così grossolano, che pur non avverta il passaggio da uno a un altro periodo ritmico, e nel periodo da uno a un altro intervallo, da una serie a un’altra. Anche nel linguaggio famigliare usiamo un certo ritmo, secondo il più o meno di efficacia che vogliamo dare a’ nostri sentimenti.

Ora, in questi versi il ritmo è il più spesso insignificante, e talora è in contraddizione con l’orecchio o con la natura della cosa che si vuol rappresentare. Vediamo qualche esempio

Megara dice a Ercole:

                                   Su, ti conforta,
Ché non ci fûr poi tanto aversi i Numi.

Se ti dicesse: «furo», avremmo lo stesso pensiero, altro ritmo, un ritmo insignificante, dove pure un significato è richiesto in tanta concitazione di colei che parla.

Ma in cambio di «furo» qui c’è «fûr poi». Quel «poi» è in quinta sillaba, dove l’endecasillabo non patisce accento. La quinta sillaba suol essere principio o fine di parola e affatto insignificante.

Quel «poi», messo lì in quinta, fa stacco e costringe l’attenzione e spezza in due un pensiero unico, ficcandoci per lo mezzo come una parentesi, e ch’è peggio, di forma ragionativa. Cosa possibile nel parlare famigliare e anche in un verso comico, ma inadeguato alla passione e alla concitazione del discorso.

Nel Ratto d’Europa, Giove sotto forma di toro, appena gli fu sul dorso la vergine Europa:

Balzato in piè fuggì veloce al mare.