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non è più per Leopardi quasi un complesso di pensieri; è un tutto organico e vivente, le cui idee sono vita, senso, carne e sangue. E tali sono in questa breve storia di due giovani colti nell’allegra serenità delle illusioni e dei sogni, la cui giovinezza fu spenta nell’una dalla natura, nell’altro dal vero. La fugacità della vita, e della illusione, e della speranza, e della gioventù non è qui concetto, ma impressione, e impressione senza espressione propria: è lacrima della cosa, è sentimento insito quasi in ciascuna immagine.

Tra queste impressioni comparisce Silvia. La giovinetta della Sera del dí di festa, e l’altra del Sogno sono poco più che schizzi, o embrioni: la forma completa è Silvia. Ella è appena entrata nella giovinezza, a quella età che la fanciulla sta per trasformarsi in donna. Quello che sente, non è ancora amore: è un non so che lontano e vago che la rende pensosa, ma non la turba, non le fissa gli occhi, non le dà il lungo sguardo del desiderio. Il riso e il canto esprime l’intima letizia di una vita pur mo uscita dal verde, tutta color di rosa. Il suo vicino, al suono di quella voce, lascia i cari studi e s’affaccia. Era il maggio odoroso. Quel canto, quella natura gli move il core. Giovine anche lui, nell’età della speranza, e sogna d’amore e di gloria:

    Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!

Ciò che unisce questi due esseri non è amore, è simpatia il vincolo comune della giovinezza. I loro sogni sono diversi. L’una sogna le lodi delle negre chiome e degli sguardi innamorati, e i dì di festa, e le compagne che le favellano d’amore. L’altro sogna:

I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi.

Diversi i sogni, ma il sentimento è uno. E pari è il destino. All’una il sogno è troncato dalla morte, e fra breve è troncato all’altro dall’apparire del vero.

Leopardi non aveva mai rappresentato la vita che nella sua fugacità, nel dolore di quella fuga, nella malinconia di quel