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xxxvii. «silvia» 269

Lui aveva allora ventun anno; non gode la festa, e neppure nella sera, la dolce notte e la queta luna: anzi grida e freme:

        Oh giorni orrendi
In cosí verde etate!

C’è qui dentro un tumulto e un ruggito di gioventù, che il sentimento poetico trasforma e raddolcisce nella contemplazione dello sparire universale, con quell’effetto malinconico che ti fa il morire a poco a poco di un canto che si allontana.

In questo sparire universale ci è anche la speme:

        A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.

Quadro fosco, illuminato appena da quella cara giovinetta, che nella cheta stanza dorme, e non la morde cura nessuna, e ha goduto la festa, e, dormendo, sogna la festa. Nel Sogno, quella cara giovinetta è spenta:


    ... nel fior degli anni estinta,
Quand’è il viver più dolce, e pria che il core
Certo si renda com’è tutta indarno
L’umana speme.

Queste erano le donne poetiche di Leopardi, senza nome, senza contorni, vapori che il vento porta seco e non lasciano orma. Compagne di queste apparizioni efimere, le illusioni svanite, la speranza mancata, la giovinezza spenta, la vanità delle cose: materiali sparsi, che il poeta, giunto a trent’anni, fonde ora nel crogiuolo della vita, e n’esce quella forma immortale, che si chiama Silvia.

Queste illusioni, e la speranza e la giovinezza fuggite, questo sparire di tutte le cose, non ha qui, come per lo passato, espressione d’idea o di concetto; l’idea è divenuta sentimento, incorporato nel fatto. Chi ricordi le canzoni, e anche gli idillii, vi troverà molta copia di sentenze, come nel Sogno: è la forma del pensiero, quando si affaccia nella sua purezza. Ma ora il mondo