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260 | giacomo leopardi |
che i suoi mali fossero diminuiti; ma l’uso quotidiano ne aveva rintuzzato il sentimento. E non gli mancavano conforti preziosissimi, soprattutto quello dell’amicizia, che raddolcivano la sua ipocondria.
Molte donne gli furono amiche vere, come l’Adelaide Maestri, e la patriottica Antonietta, e la Lenzoni, e più tardi la Paolina Ranieri.
Anche di alcune letterate ebbe l’amicizia, come fu della Franceschi e della Malvezzi. Furono relazioni brevi, perché l’ultima volta che manda un saluto alla Franceschi, per mezzo del bravo Puccinotti, dice: «Se se ne cura», e di un lavoro della Malvezzi parla con compassione sprezzante: «Povera donna! lo avevo già letto». Pare che la nobile signora volesse fargli correggere il manoscritto, e che egli se ne schermisse.
Pure, non gli bastava l’amicizia, voleva l’amore, e facilmente s’illudeva e s’impaniava, facendo triste esperienza delle donne, e volgendo talora l’amore in disgusto. Così fu con la bolognese, intorno alla quale scherzava Papadopoli; né incontrò meglio in Firenze; anzi scrive a Giordani:
Questi viottoli che si chiamano strade, mi affogano; questo sudiciume universale mi ammorba; queste donne sciocchissime, ignorantissime e superbe, mi fanno ira.
Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né d’altre cose simili; ma ho bisogno d’amore.
E ne ha bisogno tale, che talora con gli amici e con le amiche prende linguaggio d’amore, col Giordani, col fratello Carlo, con la Tommasini, con l’Adelaide. Questo non era artifizio ed abitudine di frase, come in Pietro Giordani, ma sfogo inconscio di un cuore vergine. E meritò di avere intorno a sé non solo ammiratori, ma amici veri e caldi, come il Giordani, il Pepoli, il Tommasini, il Brighenti, il Puccinotti, il Papadopoli, lo Stella, il Capponi, il Ranieri, il Colletta. Così s’era ito formando intorno