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246 | giacomo leopardi |
Metto pegno che l’Antonietta non dové rimaner contenta di questa secca risposta. Quella caldezza di cuore, che ispirò le canzoni patriottiche, non c’è più. Tutto ciò che vive al di fuori, opera tardamente e scarsamente sopra questo essere concentrato.
L’ultima lettera è a Puccinotti, secca al solito, e finisce in uno scoppio di bile:
... porca città, dove non so se gli uomini sieno più asini o più birbanti; so bene che son l’uno e l’altro.
E conchiude;
La prima volta che in Recanati sarò uscito di casa, sarà dopo dimani, quando monterò in legno per andarmene.
Questo fu il suo addio a Recanati. L’anima era già a Bologna, in mezzo alla cordialità delle famiglie Tommasini e Brighenti, tra cari e stimati amici, come il Costa, lo Strocchi, il Marchetti, il Pepoli, l’Orioli, il Maestri, il Colombo, il Taverna. Il povero Leopardi vi si sentiva stimato e amato, e questo era il balsamo che gli raddolciva il carattere.
La sua breve, ma lieta dimora in Bologna fu dal 26 aprile al 20 giugno. Alla sua Paolinuccia scrive:
La stagione qui è ottima, e io mi diverto un poco piú del solito, perché, grazie a Dio, mi sento bene,... e perché gli amici mi tirano, sono stato all’Opera già due volte.
Il buon libraio gli confermò le sue commissioni, co’ soliti dodici scudi al mese. Voleva da lui anche un Cinonio; ma Leopardi, che dopo il Petrarca e la Crestomazia non voleva sobbarcarsi a un altro lavoro di schiena, promise di tentare il Costa, e non fece nulla, saputo esser l’uomo divenuto, «così pigro, che sarebbe quasi impossibile indurlo ad assumere una lunga fatica».