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xv. 1821-22 - il «bruto» e la «saffo» 145
        non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Né scolorò le stelle umana cura.

Questo che all’uomo di scienza dee parere maraviglia e lamento di femminuccia, posto quel concetto, ingrandisce le proporzioni dell’eroe. Rimasto solo, ha l’orgoglio della sua solitudine, e caccia via da sé ogni culto, ogni preghiera, e si fa piedistallo di quella solitudine e di quell’abbandono. Il suo suicidio è un atto di ribellione alla natura, compiuto con coscienza di ribelle e con accento di sfida, come volesse dire: — Che potete più farmi? — Nel punto di morire tutto è già morto in lui, ogni credenza alla virtù, alla gloria, all’umanità, alla divinità, alla natura. Pure, il moribondo appare più vivo e più attraente che non tutti quei sordi re di Olimpio e di Cocito, perché nella sua disperazione senti l’uomo virtuoso, il patriotta, il romano, e non il grido ribelle di un individuo, ma di tutto il genere umano. Non è la vuota superbia di Capaneo, è l’orgoglio di Prometeo, che porta nella sua ribellione la coscienza della vittoria. Bruto vinto ispira simpatia appunto per questo, che ciò che lo muove è non solo il suo caso particolare, ma più l’alta rovina e le mutate sorti del mondo. A lui romano sembra impossibile che la natura non si commova innanzi a questa catastrofe, e gli sembra che, finita Roma, sia finito tutto, e niente abbia più pregio o ragione d’essere. L’ultimo romano gitta nella rovina universale il suo nome e la sua memoria:

E l’aura il nome e la memoria accoglia.

Si può credere che quello che esce dalle labbra livide di un suicida sia una mezza verità, o piuttosto una verità poetica, essendo assai verisimile che a uomo disperato non si presenti il morire in altro modo. L’uomo tranquillo chiama bestemmia quello che suona verità in bocca a Bruto. Ma Leopardi non mira solo a creare un personaggio poetico, e porlo in una data situa-

10 — De Sanctis, Leopardi.