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138 | giacomo leopardi |
L’orizzonte è ancora più nero nella canzone a un vincitore nel gioco del pallone. La patria è morta, e nell’avvenire il poeta non vede la vendetta o il risorgimento, vede l’ultima rovina. L’immaginazione funerea anticipa l’avvenire e se lo reca innanzi co’ colori più densi e più carichi, mescolando insieme in una sola visione rovine e grandezze, e animando le une e le altre, le une come oltraggiassero, e le altre come sentissero l’oltraggio:
Tempo forse verrà ch’alle rovine Delle italiche moli Insultino gli armenti, e che l’aratro Sentano i Sette colli; e pochi Soli Forse fien volti, e le città latine Abiterà la cauta volpe, e l’atro Bosco mormorerà fra le alte mura. |
Fantasia nova dell’umor nero eccitato dalle recenti vergogne della patria, che non lasciano speranza di miglior sorte, e dispongono l’anima al peggio. Sentimento e forma sono qui compenetrati, colpita l’immaginazione da ciò che vi è di colossale in tanto strazio, e che trova la sua espressione nella solennità uguale della forma, di cui ciascuna frase è una punta di coltello: una tragedia che rimane in fondo seppellita sotto il sublime di una impressione unica, e che non ti cava lacrime, ti percuote di stupore, come innanzi alle grandi catastrofi.
È vero che la «matura clade» è evitabile, se il cielo sarà cortese; una cortesia di cielo che dá ben poca speranza, quando gli italiani sono chiamati dal poeta «abbiette genti» e «perverse menti». Sicché la patria è data per morta:
Alla patria infelice, o buon garzone, Sopravviver ti doglia. |