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xii. 1820 - canzone al mai 119

nel suo contenuto è la rappresentazione di ciò che nobile e bello gli appare nel passato, sentito con simpatia e calore e desiderio giovanile. Ma il passato non gli si può presentare se non unito alla vergogna presente; in quell’entusiasmo penetra una nuova serie di sentimenti, sdegno, dolore, disprezzo, ironia. Il suo nullismo, divenutogli abituale, quasi una idea fissa, tinge tutta questa rappresentazione di un colore oscuro e quasi funebre, come di esequie, le esequie di quel bello e nobile passato, che non torna più. L’impressione generale è il desiderio che ti si accende nel petto di quella nobile patria, e il desiderio è prima nel poeta, che maledice il vero, e si stringe affannosamente alle care illusioni.

Eccoci innanzi Atene e Roma. Quei popoli erano felici, perché natura parlava a loro velata, ed essi prendevano quel velo per la natura essa medesima:

I vetusti divini, a cui natura
Parlò senza svelarsi, onde i riposi
Magnanimi allegràr d’Atene e Roma.

Vuol dire che la natura non si era svelata nella sua verità e nudità, e compariva vestita di tutte le sue illusioni, ch’erano il suo velo ingannevole. La frase è troppo rapida nella sua profondità; è un pensiero che balena e che sarà più tardi la base di un’altra canzone.

A questa serenità dell’arte e della vita succede il dolore:

               Ahi dal dolor comincia e nasce
L’italo canto.

Pure, il dolore rivela una fede ancora robusta nelle illusioni; la vita aveva ancora i suoi ideali; perciò non ozio e non noia:

               .   .   .   anco sdegnosi
Eravam d’ozio turpe, e l’aura a volo
Più faville rapía da questo suolo.