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«intieramente disfatta» da non potere «fissar la mente in qualunque pensiero», si sentì «stimolare dal desiderio di non restar negligente in un successo così felice». Il 17 dicembre si dice «già vissuto». Il 10 gennaio, percosso di maraviglia, sente in sé rivivere gli antichi spiriti, e vuole scrivere un libro su tutte le scoperte del Mai, e gli chiede le bozze della nuova opera, e ricorda i tempi dei Petrarca e dei Poggi, «quando ogni giorno era illustrato da una nuova scoperta classica, e la maraviglia e la gioia de’ letterati non trovava riposo». Tutto questo è quella lettera che il 10 gennaio, su quel primo calore, scrisse al Mai.

Ma il Mai non gli mandò le bozze, e di quel suo disegno non ne fu niente. La salute disfatta non gli consentiva lavori lunghi e pazienti, come quello sulla Cronaca di Eusebio. Ma gli consentiva a rari intervalli schizzi e versi. E in uno di questi intervalli quell’entusiasmo di erudito, acceso ancora più da quella esaltazione patriottica che in quell’anno guadagnava tutti, ebbe il suo sfogo nella canzone Ad Angelo Mai.

Canzone straordinaria, se mai ce ne fu; perché, se nella parte tecnica poco si discosta dalle altre scritte innanzi, per ricchezza e novità di contenuto soprastà a quelle di molto. Prima c’era l’artista, già maestro di stile; ora c’è anche il poeta, c’è lui. L’introduzione è una magnifica sinfonia romorosa, a piena orchestra, tre strofe, dove si vede che i suoi malanni niente hanno tolto alla freschezza dell’immaginazione e al calore del sentimento. Rivediamo il giovine nel brio dei suoi venti anni, quando faceva la canzone All’Italia. La scoperta del Mai nella sua immaginazione è la voce antica dei padri, «muta sì lunga etade», che ora viene sì forte e sì frequente ai nostri orecchi, ora, perché questa o nessun’altra è l’ora da ripor mano alla virtù rugginosa degl’italiani. Ci si sente il poeta del 1820. La scoperta di un erudito è il clamore dei sepolti, è il suolo che dischiude gli eroi dimenticati:

I martiri nostri son tutti risorti.

L’entusiasmo del poeta si trasforma in vivo sdegno, quando gitta l’occhio sull’Italia presente. Quello sdegno non è che lo