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ii. il «cinque maggio» 329
Mentre siete stordito, supponete che il poeta vi prenda pel braccio con una brusca interrogazione: — «Fu vera gloria?» — , che giunge improvvisa come il fulmine di Napoleone; che vi obbliga a pensare, sembrando impossibile che la verità di questa gloria possa esser revocata in dubbio. Ma non fa il pedante, come Lamartine che fa in un’ode un processo criminale a Napoleone per aver ucciso il duca d’Enghienna. Manzoni è poeta perché vi lascia nel dubbio:
        Fu vera gloria? Ai posteri
L’ardua sentenza: nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
Del creator suo spirito
Più vasta orma stampar.

Napoleone morale sparisce, e rimane la grandezza incontestata del genio.
Succede il Napoleone intimo: il poeta gli scende al cuore. Che pensava? che ambiva? che bramava? Napoleone era grande, si sentiva grande e voleva far valere la sua grandezza. Non che sognasse l’impero, ma aveva quella grande ed indeterminata ambizione che fa sognar l’impossibile; quella gioja della coscienza, che nella vita si fa procellosa, e l’intolleranza d’un tal uomo costretto ad ubbidire a chi disprezza.
        La procellosa e trepida
Gioia d’un gran disegno,
L’ansia d’un cor che indocile
Serve, pensando al regno;
E il giunge, e tiene un premio
Ch’era follia sperar...

Quella «follia» è il rilievo del genio: il suo scopo era così alto da parer follia anche per Napoleone. «Tutto ei provò»: si svolgono i punti poetici della vita, aggruppati intorno ad un solo pensiero.