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viii. storia e ideale nell’«adelchi» 213
Il motivo di questo Coro è profondamente concepito. Vedete dapprima un popolo il quale dopo avere per tanto tempo dormito nella servitù, per un momento si desta:

      Dagli atrii muscosí, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor.
Un popol di schiavi repente si desta;
Intende gli orecchi, solleva la testa...

Ed allora pensa: — Le mie sorti sono compiute — . Ma andate a guardare all’ultimo del Coro. Ritornano quasi le stesse parole, e vi annunziano l’immobilità del destino di quel popolo:

Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor!
      Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.

Il motivo tragico che comparisce al principio, riappare all’ultimo. E che cosa ci si move in mezzo?

Che cosa si muove nel Coro? Si muovono popoli operosi, liberi: i Longobardi e i Franchi, tutti e due forti, quantunque il primo sia vinto e l’altro vincitore. Ed il Coro è appunto la descrizione di due popoli viventi gettata in mezzo alle velleità di un popolo morto che, per un momento, crede vedere cangiato il suo destino e poi ricade nella tomba.

Questo non ha l’entusiasmo del Coro del Carmagnola. Nell’ultimo il movimento drammatico è sviluppato con più vive impressioni e il poeta non rimane nello spettacolo di quell’Italia divisa, l’avvenire gli si squarcia, e maledicendo lo straniero in nome dell’Italia fa intravedere la futura riscossa. Nel Coro di cui ora ci occupiamo il popolo comparisce appena, per poi rinchiudersi nel sepolcro. Là l’accento lirico è Pindaro, è l’entusiasmo; qui l’abbattimento, un non so che di triste...