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204 lezioni

poli erano ancora i Borboni, un fremito scorreva nella sala, tanto è irresistibile l’effetto di questa strofa, così ben preparato.

Qui se ancora continuasse il Coro con queste impressioni, si esaurirebbe; andando più oltre, si cadrebbe nel seicentismo, nel gonfio, nell’esagerato.

Ma l’azione ripiglia, vengono il Te Deum, le feste, il tripudio, e l’autore diviene pensoso, e gli si presentano innanzi le conseguenze della battaglia fratricida, la calata degli stranieri da cui l’Italia fu oppressa. E tutto ciò non come pensieri, ma come azioni. Son tutte immagini plastiche; lo straniero che si affaccia alle Alpi e vede i forti che mordon la polve, lo straniero che poi discende in Italia, «fatai terra», e toglie il brando di mano ai suoi re senz’essere stato offeso, e poi in ultimo l’arma dei deboli, l’arma di quel tempo, di Manzoni, quando gl’italiani erano ridotti alla preghiera, all’invocar Dio:

Siam fratelli; siam stretti ad un patto!

L’azione oltrepassa la nazionalità; diviene azione umana, le nazioni sono considerate eguali come gli uomini, unite in un sol patto:

Maledetto colui che l’infrange,
Che s’innalza sul fiacco che piange,
Che contrista uno spirto immortal!

Tutto è vita in questo Coro, movimento, azione, la quale cammina insieme colle impressioni del poeta: non v’è nulla di artificiale.

Manzoni dopo questo dramma non rimase contento, seguì gl’incitamenti di Goethe, volle fare un altro dramma storico, l’Adelchi, del quale ci occuperemo nella seguente lezione.


        [Ne La Libertà, 20-23 marzo 1872].