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136 | lezioni |
magine della Madonna, come si soleva metterne fino ai tempi vicini a noi per le vie, anche in Napoli. Ella trova dunque l’immagine della Mater dolorosa: col cuore gonfio, bisognosa di espansione, si getta in ginocchio e prega.
Ci è qui qualcosa al di fuori che determina il carattere del personaggio, il quale non è lirico, non ci dà un soliloquio eterno: ci è un «due» che ne determina i sentimenti. Accompagniamo Margherita ancora per poco. Ella va in chiesa, ove si celebra messa solenne con canti e col suono dell’organo: cantasi il Dics irae. Quante volte ella l’ha inteso senza che le facesse impressione! Ora le pare che ogni parola sia un rimprovero per lei, che quelli i quali cantano guardino a lei; ad ogni tre versi latini, nuove impressioni nel suo animo. Ed è magnifica la fine: quando ode: — «Quid sum miser tum dicturus?»; che dirò nel giudizio universale, innanzi al Dio severo, guardando il quale anche il giusto trema? — Ghita si abbandona nelle braccia di quelle che le stanno intorno, esclamando:— Datemi un’ampolla, mi sento morire! — .
Ermengarda manca di situazione drammatica, parla a lungo, pronunzia nel delirio frasi generali, ma come donna vivente non esiste. Voglio presentarvi un’altra riflessione. Quando Ermengarda parla d’Ildegarde, che impressione ne avete? Sapete voi chi sia questa Ildegarde? No, lei lo sa. Ma in poesia un personaggio deve essere poetico come gli altri. Ildegarde, questa vita di ricordanze, Carlo — che cosa sono per noi? Nomi, parole; non sono messi in iscena, non in situazioni drammatiche, ci sono rappresentati nelle frasi, nelle parole poetiche. Quando diciamo: «Ermengarda», siate certi che non intendiamo Ermengarda della prima e della seconda scena, intendiamo parlare del Coro; ecco quello che è rimasto vivo della tragedia, il canto che le suore innalzano a Dio intorno alla morente. In esso non ci è il carattere virile o femminile dell’ideale, ma il germe della nuova lirica. Le suore, aliene dal mondo, estranee al passato di Ermengarda, piangono, la compatiscono, la consolano: esse non sanno, non debbono sapere, i dolori terreni di un’anima non consacrata a Dio. Quando innalzano la voce intorno ad Ermen-