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iii. Ermengarda | 133 |
se stessa, il segreto le sfugge, e rivela quali sono le sue memorie.
Un critico tedesco dice che questa scena è piccola, che ci si rappresenta una donna gelosa, da commedia, che qui si guasta il personaggio. È uno di quei critici come ce ne sono molti in Germania, i quali hanno molto ingegno e dottrina, ma non il sentimento dell’arte. Klein, che è quel critico di cui vi dicevo, non sente che qui la gelosia è introdotta non per sé, ma come mezzo di poter rompere il ghiaccio nel quale Ermengarda si trova. Per quel carattere chiuso per forza, pur con tanto desiderio di espandersi, è questo il mezzo ultimo di rivelare il segreto interno, le memorie che ondeggiano nella sua mente. Immagina nel delirio di stare innanzi a Carlo, il quale rimane ancor freddo alle parole di lei: manifesta l’amore che fino a questo punto ella non ha cacciato dal cuore. Crede di parlare a Carlo, e dirgli:
— Amor tremendo è il mio. Tu noi conosci ancora; oh! tutto ancora Non tei mostrai: tu eri mio: secura Nel mio gaudio io tacea; né tutta mai Questo labbro pudico osato avria Dirti l’ebbrezza del mio cor segreto — |
Sicché in ultimo ecco svelato l’arcano: e comprendete perché le memorie assalgano Ermengarda anche nel monastero: esse non per se stesse si fanno valere, ma perché sono Carlo, sono l’amor suo! Ella non osa dire: — Io l’amo— ; ma ricorda il tempo in cui era regina, quando andava alla caccia con lui: così è esposta in modo pudico la vita di questa donna, che ama sempre chi l’ha ripudiata, e noi può dire.
Il delirio affretta la sua fine; quando il segreto le esce di bocca, ella muore. Ritornando in sé, si volge a Dio, si riconcilia con lui, spira dicendo:
— Moriamo in pace. Parlatemi di Dio; sento ch’Ei giunge — . |