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spasimo 285

qualcuno valesse più di me. E come comprendevo che voi avreste saputo farla felice, la superbia, l’amore, la gelosia, tutti i sentimenti, tutti gl’istinti selvaggi della mia razza, della mia natura, insorgevano, formidabili. «Tu promettevi pur ieri di non lasciarmi,» le dissi con voce amara, «perchè sei la mia sposa, e vuoi ora ucciderti!...» Ella non negò, «Lasciatemi morire,» rispose: «sarà meglio per tutti.» C’era nella sua voce qualche cosa che non conoscevo: l’amore per voi, il rancore di lasciare la felicità che da voi si riprometteva. «Non puoi dunque più tollerare la mia vista? T’incresco a tal segno?» Dissi queste parole, e molte, molte altre ancora. Ella rispose soltanto: «Di chi fu la colpa?» Udite: fu questo il primo rimprovero che mi volse dopo lunghi anni di dolore. «Ebbene,» replicai, «io sparirò: parto oggi stesso, fra poco, nè ti verrò mai più dinanzi. Vuoi ancora morire?» Mi disse: «Sì.» Ebbi paura di comprendere, pure domandai: «Perchè?» Le sue parole non mi significarono nulla che io già non sapessi: «Perchè, se vivo, sarò sua.» Sua, vostra, d’un altro!... Una vampa m’accese gli occhi e la fronte. «Non è possibile, non sarà!...» Ella scosse il capo. «Non dir di no!» insistetti. «Non dir di no!... So bene che non mi ami più, che mi odii, che mi esecri; ma non dirmi che ami un altro, perchè... perchè...» Disse: «L’amo.» Allora scongiurai. Piansi anche. Ella ripetè: «L’amo.