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276 | spasimo |
non era più tornato. Una mortale paura l’occupava al pensiero di rivedere i soli luoghi dove potesse dire di avere realmente vissuto. Credeva di morire soffocato rivedendo le rive di Ouchy, le pendici di Losanna, la villa dei Ciclamini, il bosco della Comte, le umili cappelle, il panorama del Lemano velato di nebbie o sorriso dal sole. Pure un giorno egli andò.
Ritrovò quelle prode quali le aveva lasciate. L’impassibilità della eterna natura lo ferì come un insulto: se almeno qualcosa fosse stata distrutta sulla terra, se almeno egli avesse ritrovato intorno a sè le tracce d’una devastazione simile a quella patita dentro di sè!
I monti secolari, le acque perenni, voraci sepolcri di viventi, restavano immutabili. Egli veniva riconoscendo ogni passo del cammino, ogni particolarità della vista. Con la disperata certezza che nessuna potenza avrebbe potuto compiere mai il miracolo di ridargli ciò che aveva perduto, egli pur figgeva intorno lo sguardo e porgeva intento l’orecchio, quasi un’apparizione, quasi una voce potesse suscitare lo svanito bene.
E una sera che dalla finestra della sua stanza contemplava le sommità della Dôle dietro le quali il sole scendeva radiosamente, egli trasalì al suono d’una voce che parlava dietro di lui.
Era zimbello d’un’allucinazione? Non sognava ad occhi aperti?