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268 | spasimo |
Tutte le ragioni da lui addotte contro l’ipotesi del suicidio gli stavano nella mente, irrecusabili. Era credibile che ella si fosse uccisa senza lasciargli un ultimo saluto? Se aveva fede in Dio poteva ella uccidersi? Qualunque fosse l’ambascia nella quale era ridotta, nonostante i propositi di morte, sul punto di metterli in atto la sua mano non doveva tremare? Il suo braccio non doveva ricadere inerte al pensiero di lasciare il triste esempio a lui che aveva riconciliato con la vita? Uccidendosi, non lo uccideva?
«Questo è particolarmente grave, nell’amore: che ciascun amante non è responsabile degli atti suoi proprii, ma anche di quelli ai quali spinge la persona amata.»
Erano le sue parole. Per uccidersi aveva dovuto dimenticarle. E le aveva dimenticate! La sua fede in Dio non era tanto salda quanto pareva, giacchè ella si era uccisa! Si era uccisa pensando a un’estranea, senza lasciare a lui la parola del commiato, ridandogli invece i dubbii ai quali aveva voluto sottrarlo!
Questa era la realtà. Egli era stato vittima di un’illusione, dell’eterno inganno dell’amore, attribuendo a quella donna le sublimi virtù che non possedeva, esagerando la bellezza di quell’anima sino a farne una perfezione oltre umana.
«Io dovevo sapere,» diceva egli a sè stesso tentando di reagire contro la tristezza del disin-