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la lettera 247

a sollevarlo. Vagando per i luoghi dove era stato con lei, cercando ancora qualcosa di lei sotto il cielo, egli riudiva la voce sommessa consigliare:

«Perdona.»

Egli diceva a sè stesso: «Non posso.»

Non poteva. Perdonare sinceramente, col cuore, egli non poteva, non avrebbe potuto, mai. Doveva lasciare soltanto che la giustizia facesse a suo modo, non più intervenire? Se era sicuro del nuovo inganno, non doveva svelarlo?...

Ma la paura di profanare le memorie dell’amor suo lo arrestava. Non le aveva già lasciate profanare? Egli che non voleva ascoltare la voce del perdono, non aveva bisogno che la Morta lo perdonasse?... Per sostenere l’accusa contro Zakunine bisognava spiegare che questi era stato geloso di lui, che aveva creduto fondata la propria gelosia. Ciò gli riusciva impossibile. Che fare?

«Perdona,» diceva sempre la voce.

Egli l’udì non più secretamente, non più nel sogno, ma distinta, alla luce. Un giorno, errando per la montagna dove aveva guidato la sua nuova sorella, si trovò dinanzi alla cappelletta della quale la debole mano non aveva potuto schiudere la porta. La porta era chiusa, come un tempo. Egli sostò, tremante, battendo le ciglia sugli occhi ardenti. Sulla grossa chiave rugginosa la bianca mano s’era posata. Volle aprire, poi si ritrasse per paura di cancellare la traccia della mano. Ma