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l’inchiesta 169

e s’era indugiato fino all’arrivo del treno per godere lo spettacolo della catastrofe. I sassi erano grossi ma per fortuna friabili; le ruote della macchina li avevano ridotti in polvere senza scostarsi d’una linea.

Un’altra volta, un poco più innanzi negli anni, la fredda insania di quell’anima s’era manifestata in altro modo, contro sè stessa. Girando per le sue possessioni della Piccola Russia, il figliuolo d’un mugik che gli faceva da guida gli veniva spiegando le qualità dei vegetali; dinanzi a una verde macchia, additata una pianta bassa dalle foglie lunghe e villose, aveva detto: «Questo è giusquiamo, veleno tremendo.» Allora, rapidamente, prima che la sua guida avesse tempo, non che d’impedire l’atto, ma neppure d’accorgersene, egli aveva strappato quante foglie la sua mano capiva, divorandole. La guida si era ingannata, quella pianta non era giusquiamo; ma per un giorno tutti avevano creduto Alessio Zakunine avvelenato ed erano rimasti tra ammirati e sgomenti vedendo l’ironica allegria con la quale egli aspettava la morte e sferzava i trepidanti.

Tutta la sua prima gioventù era stata una tempesta. Senza denaro, il demone del giuoco lo aveva afferrato per i capelli: una notte, perduta una somma fortissima che non poteva pagare, si era tirato un colpo di revolver al cuore per non sopravvivere alla vergogna; la palla, deviando, gli aveva fra-