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di toccarla quasi ella potesse spezzarsi, e chi l’aveva presa a colpi di revolver e di rasoio...
«Aveva amato.
«Io credo che queste creature possano e sappiano amare; credo anzi che, se le Toscanine soffrono, piangono e all’occorrenza si uccidono per amore, ciò prova che questo famoso amore non è soltanto il desiderio delle carezze — esse non possono dire di struggersene invano! — ma anche un bisogno tutto morale. Si deve tuttavia essere molto accorti prima di credere a simili donne; quante ve ne sono indegne di fede? Precisamente l’indegnità della più gran parte rende sospette le poche eccezioni. A dar retta alle molte, l’amore le ha perdute: esse non mancano anzi di narrarvi un complicato romanzo. Ora, la Toscanina non diceva questo e non narrava romanzi. Particolare strano: non dava nessuna versione intorno alle origini ed alle circostanze del suo primo errore. «E’ tutta una storia» diceva; e questa storia consisteva, a suo dire, nel fatto che ella non serbava memoria, non aveva anzi mai saputo quando e in che modo aveva perduto la sua innocenza. Era forse un’arte più raffinata quella che le suggeriva di avvolgersi in un preteso mistero, o v’era un mistero realmente, e quale? Non potei saperlo. L’amore del quale la Toscanina parlava era nato in lei nei giorni peggiori della sua schiavitù. «Me ne rammento come fosse ora,» narrava; «la prima volta che vidi Riccardo fu una sera, tardi: io era rannicchiata sopra un divano, coi piedi mezzo fuori delle pantofole, il capo appoggiato sul braccio e avvolto in una fascia rossa che pendeva fin sul tappeto. Entrarono a un tratto tre o quattro allegri giovanotti che scherzavano fra loro; io mi voltai un poco per vedere chi fossero e poi mi raccolsi meglio nel mio cantuccio. Dopo un poco uno di loro si mise al pianoforte e cominciò a sonare. Sonava tanto bene; ma io non lo vedevo, perchè tenevo gli occhi chiusi; e anche li avessi aperti, egli mi voltava le spalle. Fra l’altro, sonò un valzer, ma così bello come non ne avevo mai udito