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appena mi scorgono, i tre Afgani s’arrestano, si turbano ed esclamano ad una voce:

— Siamo perduti!...

Questi Afgani erano tre miei amici piemontesi, i quali, per passar mattana, per dimenticare certi loro dispiaceri e per épater les bourgeois, avevano combinato di fingersi originarii dell’Afganistan, adoperando una lingua di loro invenzione, che è poi un italiano scombussolato secondo certe regole non molto difficili da ritenere. Ed ecco che la mia presenza li rovina!

— Qui bisogna far le valigie! — esclama Tito Castelli, e Giovanni Gabotti: — Si salvi chi può! — Io avrei promesso di fingere di non conoscerli, per godermi lo spettacolo; ma, sapendosi scoperti, essi non erano più capaci — e neppur io, in verità — di star serii. Deliberarono di partire la sera stessa, e, senza scendere a table d’hôte, mi vollero con loro a pranzo, in camera di Gabotti. Il ricordo delle scene più divertenti della loro farsa li metteva tanto di buon umore, che non badavano alle bottiglie vuotate; all’arrosto erano più che brilli. Ciascuno vantavasi di aver detto alle signore, in quel linguaggio convenzionale, le cose più incongrue di questo mondo; e come io, udendole riferire, mi mostravo un poco scandalizzato, Grolla disse:

— Va là, che meriterebbero d’averle ripetute in buon italiano! — E allora, tutt’e tre, cominciarono a dir cose, contro la più bella metà del genere umano, che neppure i Padri della Chiesa han detto le simili. Ella sa infatti, contessa, che secondo San Pietro la donna è vipera fischiante, secondo San Bernardo opera del diavolo, secondo San Cipriano peste, contagio, ruina... e le faccio grazia del resto. Dopo la frutta, il cameriere venne a portarci la nota, che essi avevano chiesto di pagare: doveva essere molto salata, perchè Castelli apostrofò il tavoleggiante così:

— Giovine! Noi ci siamo spogliati della cittadinanza afgana, ma il tuo padrone ci vuol ridurre in camicia!

Io feci notare che il padrone aveva messo nel conto le beffe che s’eran prese di lui e degli altri; e Grolla esclamò: