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il protocollo della “giovane italia„ 87


che propagarle di cercare di ridurle ad atto — s’io serbo intatte le mie credenze».

Ma nell’uomo di pensiero e d’azione, nell’uomo che faceva della vita una «credenza in azione», la forza della fede doveva presto vincere e fugare i dubbii, le diffidenze, gli sconforti, e produrre un nuovo, più alto slancio operoso. Per lo studio della psicologia del Maestro questa crisi è delle più istruttive. Come al Fabrizi, egli descrive al Melegari l’abbandono nel quale è rimasto, le delusioni sofferte, la perdita «di ogni senso di vita individuale, d’ogni potenza di gioia, d’ogni capacità di sentire o sperare un’ombra di felicità»; «ma d’altra parte,» afferma immediatamente, «lontano dal cadere nella misantropia quanto alle azioni, mi sento più fermo che mai, più deciso che mai a giovare — se mi s’affacciassero mezzi — all’Italia futura. Vivrò e morrò, lo spero almeno, per essa. Sicchè qualunque sfogo io t’accenni sugli uomini e sulle cose d’oggi, non accusarmi di debolezza, nè di mutamento. Le cose e gli uomini, comunque m’appaiano, possono oprare sulla mia vita intima e sul mio cuore, tormentandolo; non mai sulle mie azioni, nè sull’adempimento de’ doveri, de’ quali il cenno viene a me da più alta cosa che non è il presente: Dio e il cuore, la tradizione dell’Umanità e la mia coscienza...». E di lì a poco l’uomo che aveva negato ogni fiducia "nella generazione vivente