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poggiata alla spalla, le mani in mano, gli occhi perduti nell’infinito splendore del mare, abbagliati da quella luce che si rinforzava nel crepuscolo, mormorando paroline in cui si sentiva tutta la dolcezza del germanico «Liebe».

Essa era bionda, colle guancie soffuse di rosa, gli occhi azzurri, pieni d’innocenza e di verginità. L’anima di quella romantica creatura non aveva una macchia, e Dio vi si specchiava come in un cristallo.

«U barone» buttando un mozzicone dallo sportello, volse le spalle alla coppia felice e sputò sulla terra. Si attaccò colle due mani alla finestrella del vagone, vi appoggiò la faccia, sorreggendosi come un uomo stracco stracco, mentre gli occhi vuoti e gonfi guardavano di fuori senza vedere altro che un grande bagliore di colori fuggenti.

Finchè il treno in ritardo sforzò la sua corsa, il rombo, le scosse, il fischio, la fuga delle cose, l’affanno stesso della corsa fatta per arrivare a tempo, il battimento dei polsi, il palpito precipitoso del cuore già affetto d’ipertrofia, non gli lasciarono il tempo di riflettere. Anzi per un quarto d’ora si obliò perfettamente, quasi assorbito dalle sue stesse emozioni fisiche. Man mano che il treno rallentava, egli cominciò a ricuperarsi, e trovò tutto sè stesso, entrando in stazione. E si meravigliò di sentirsi così sicuro e quieto. Scese e s’incamminò verso la città col passo di un uomo «convinto». Man mano che