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gente prese la via dei campi e tagliando il colle per un sentieruolo di traverso, ch’ei conosceva molto bene, andò a porsi sul passo di Salvatore che aveva presa comodamente la lunga.

Sedette sopra un muricciolo e accese un avana, come un buon villeggiante, che riposa lo spirito dopo un gran lavoro. Dal luogo ove si fermò, l’occhio stendevasi su tutta la città e sul magnifico golfo, lembo di paradiso in terra, chiuso fra due conche azzurre, quella del cielo e quella del mare.

In fondo il Vesuvio mandava fuori un ciuffo di fumo, e l’anfiteatro della città e dei paesi distesi al suo piede biancheggiava alla luce tersa dell’aria piena di caldi effluvi.

A sinistra, dietro una folta macchia di lauri, usciva la cornice grigia della villa rattristita dall’ombra d’una nuvoletta passeggera.

— Sono sensazioni! — disse ancora la voce di prima, come se in lui parlasse lo spirito di un freddo anatomista; lo sguardo corrucciato si sprofondava verso l’orizzonte.

Accese ancora il suo buon avana e provò a soffiare il fumo verso il cielo colla beata noncuranza di chi esce dalla sala da pranzo in un giardino a digerire.

La natura era bella, soave, lucida, tranquilla, come se nulla fosse accaduto.

Martino sonava a festa, allegramente, pazzamente, e al suono della sua musica danzavano gli echi lontani.