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ascoltare una messa da morto che un frate magro e spaurito recitava con voce cavernosa, leggendo in un libro magro orlato di nero.
La luce che batteva sulle tende giallastre riempiva la nave della chiesa di un’aria morta, in cui scintillavano i candelieri, le lampade, le cornici dei quadri.
Una gran pace dormiva negli angoli fondi e ciechi delle cappelle, dove le immagini dei santi alzano le mani al cielo, dove sonnecchiano le statue polverose, dove si appiattano i vecchi sepolcri.
— «Et lux perpetua luceat ei....» — diceva il frate spaurito, che nel voltarsi indietro a benedire fissò l’occhio bianco e infossato sopra don Cirillo.
Accosciata ai piedi del balaustro di marmo, una donna, forse la vedova del defunto, singhiozzava rompendo il silenzio della cupola. A lei rispondeva con un singhiozzo rauco una lampada a cui mancava alimento, a destra, dove una scaletta menava all’ossario dei giustiziati.
Prete Cirillo sentì una pesante tristezza invadere l’anima e venir meno le forze dell’egoismo. Egli era forse troppo attaccato ai beni della terra e poco tempo aveva consacrato alla edificazione delle anime e alla morale perfezione. Un giorno Dio gli avrebbe dimandato conto del talento affidatogli e Dio non si paga con titoli di Stato o con cambiali a scadenza.
Dio vuol essere pagato coll’oro delle buone azioni.