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mostrarsi troppo duri e inesorabili, spingere un povero cristiano alla disperazione. Egli era venuto per incarico suo a cercare una mezza conciliazione. Uno scandalo non avrebbe fatto che nuocere alla buona riputazione dell’istituto.

Prete Cirillo disse tanto, che persuase il Consiglio ad accettare ottomila lire una volta per sempre e a cancellare il debito del barone di Santafusca. Pagò, ritirò la quietanza per quindicimila e se ne tornò lieto e trionfante.

Il primo affaruccio non era andato male.

Il giorno dopo andò in curia e fece cantare il prete cancelliere sulle intenzioni della mensa arcivescovile e sulla somma che sua eminenza era disposta a spendere per l’acquisto dei nuovi stabili.

E rimasero d’accordo così: don Cirillo entro la settimana avrebbe scritto proponendo un eccellente affare, che egli aveva già quasi nella manica. Trattandosi del bene della Chiesa e della religione, non sarebbe stato a lesinare sul quattrino. Non volle dire pel momento nè il luogo, nè il padrone del sito, e se ne andò per definire col marchese Vico Spiano la vertenza dell’ipoteca. Non trovò il marchese in casa e lasciò una lettera. La sera stessa riceveva una risposta dall’amministrazione di casa Spiano che prometteva possibili accordi.

In tutte queste faccende il tempo passò per prete Cirillo molto più presto che non per il barone di Santafusca; e il buon servo di Dio