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dendo come se l’amabile cavaliere avesse detto una facezia. — In fondo alle scuderie, sotto quel mucchio....

Il barone non parlò più. L’occhio fisso sul cappello del prete, dopo aver raccontato del cacciatore ciò che da un mese aveva troppe volte raccontato a sè, si sprofondò nella contemplazione estatica del suo delitto come se ancora avesse sotto gli occhi quel maledetto mucchio di calce e di mattoni. Ed era uno spettacolo veramente tragico e solenne assistere alla confessione di un uomo che accusava l’ombra sua.

— Barone di Santafusca, — gridò finalmente il giudice, alzandosi ritto su tutta la persona che parve diventata più grande, — voi siete mio prigioniero.

Il barone a queste parole si scosse da quella specie di sonno magnetico in cui l’aveva tratto la fissazione della sua mente; fece un mezzo giro su sè stesso, si guardò intorno con occhio scemo e torvo, parve ancora una volta riconoscere l’orrore della sua condizione, mandò un urlo, alzò le braccia, e, spinta la sedia in terra, cercò farsi strada verso la porta.

Era troppo tardi. Vi stava già la forza.

— No, — gridò colla bava alla bocca, — v’ingannate. Posso dare altre prove. Sono malato, vedete, è la testa. Sentite la mia testa. Per Cristo santo, ho la febbre! Sono innocente. Volete che io vi conduca sul luogo del delitto? Vi farò vedere e toccar con mano. Signori, voi avete da-