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vola si lanciarono un’occhiata piena di spavento dietro le carte e i protocolli.
Più che il contegno irritato, più che l’occhio stravolto, fece colpo sull’animo dei giudici la sicurezza, la prontezza, il candore quasi con cui il testimonio confermava e ribadiva i semplici indizi della procedura.
In quel mentre entrò don Ciccio, a cui il Quaglia aveva susurrato nell’orecchio alcune paroline. L’acuto «paglietta» gettò uno sguardo su quell’uomo torbido che sedeva nel mezzo della sala, più appoggiato alle ginocchia che alla sedia, e si arrestò di scatto. Aveva egli trovato più di quanto cercava?
Fisso, estasiato di quel suo trionfo, l’avvocato dei preti andava girando la manica sul pelo del suo cilindro bianco, che non era mai stato così liscio.
Dopo aver ricomposta la persona sulla poltrona, il cavaliere Martellini ritornò a dire colla solita piacevolezza:
— Ancora una parola, eccellenza, e poi la lascierò in libertà. Ormai non è più il giudice che interroga, ma l’amico che discorre di un caso curioso. Noi magistrati siamo spesse volte affetti di miopia curialesca, e più aguzziamo l’occhio e meno vediamo le cose che cerchiamo. Un uomo di mondo invece ha l’occhio sano. Voi avete detto benissimo, caro barone.... — soggiunse il giudice ripigliando un grazioso tono di confidenza, — noi abbiamo davanti il turpe connu-