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Ormai nel suo turbamento e nel conflitto in cui trovavasi tra la verità, la coscienza e il giudice, non sempre aveva presente ciò che gli conveniva di dire e ciò ch’era meglio tacere.

— Scusi, barone, ella forse si sente male.... — balbettò l’egregio funzionario, impallidendo un poco.

— No, no, sto benissimo, che cosa dice? — rispose «u barone» balzando con una scossa del corpo come se cadesse da un gradino non visto, nel buio. — Volevo soltanto far notare — soggiunse ridendo — che la mia opinione era fondata su una presunzione, e che non avevo torto di dire «cherchez le chasseur». Non mi sento male, tutt’altro, anzi ho quasi appetito.... — Trasse e guardò l’orologio. — È naturale, è quasi mezzodì. Pareva che lor signori avessero voglia di trovarmi in contraddizione; ma qui c’è la prova parlante che un cacciatore esiste. Ecco il triste connubio dell’assassino e della sua vittima!

La voce del barone di Santafusca erasi fatta così oscura e profonda, il modo con cui andava squadrando il vecchio usciere era così pieno di ferocia e di spavento, che il cavaliere Martellini e gli altri, allibiti, si guardarono in viso.

Il buon giudice istruttore finse di cercare alcune carte, ma le sue mani tremavano come se avesse indosso la terzana fredda.

— C’è don Ciccio Scuoto? — chiese al Quaglia.

— È di fuori.

— Fatelo pure entrare.