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Entrò in una sala grande, ben arredata e ben rischiarata. Innanzi a un tavolino, ingombro di carte, sedeva il cavaliere Martellini, sprofondato nella sua poltrona fra due cordoni di campanelli che si allacciavano sulle sue ginocchia. Il suo cranio lucido e bianco faceva un gran spicco nel colore sanguigno dell’ampio schienale. Ai due capi della tavola stavano due signori, curvi sulle carte a scrivere, che il testimonio vide in ombra.

Il barone sentì per una specie di corrente magnetica che il vecchio usciere vestito da prete s’era fermato in fondo alla sala accanto all’uscio.

— Si accomodi, eccellenza, — disse con un tono più sostenuto l’amabile cavaliere, a cui l’alta poltrona imprimeva un carattere più serio ed ufficiale.

Il barone andò diritto e svelto verso la poltrona che gli fu indicata, e sedette con un poco di furia e di dispetto.

— Poichè siamo quasi in famiglia, presenterò il signor cancelliere, cavalier Tinca, e il dottor Macelli, mio collega.

Le due ombre sedute ai lati della tavola si mossero un poco. Il barone cercò di fare altrettanto.