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principe, nella sua giacca di panno a grandi scacchi. C’era donna Chiarina sua moglie in una mantiglia di seta con una frangia di pizzo e un ventaglio a colori vivi. Dai capelli usciva un alto pettine di tartaruga che il marito aveva pagato duecentocinquanta lire.

C’era anche don Ciccio Scuoto, l’anima dannata del processo, co’ suoi calzoni chiari tirati su, corti e ballanti sull’imboccatura delle scarpe, e col solito cappello bianco ispido e corrucciato.

C’era don Nunziante dal naso grosso e spugnoso, citato da don Ciccio per un apprezzamento legale; e Gennariello, il nipote del prete, povero in canna, coi capelli lunghi, pallido di fame per le lunghe sedute al tribunale che gl’impedivano d’andare attorno a ventolare l’appetito colle belle canzonette; e con costoro c’era finalmente anche quel Giorgio, l’oste della Falda, da un giorno uscito di prigione, e che Filippino aveva ospitato in casa sua per un sentimento non dirò di gratitudine (non è merito il non ammazzare) ma di riguardo verso il prete benefattore. Giorgio non riconobbe nell’elegante cavaliere colla barba tagliata alla «derby» il famoso cacciatore dalla lunga barba nera ch’era stato lassù, alla Falda, un giorno in cerca del cappello.

Il più mortificato di tutti costoro era don Ciccio, il focoso «paglietta», che vedeva il suo gran processo squagliarsi come un tortello di neve che altri butti dentro a una caldaia d’olio bollente. L’asinità dei giudici questa volta, a pa-