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de l’occhio benedetto del sole, e non regna sovrano che il vizio ed il puzzo del pesce, che il popolino frigge sugli usci e nella via.

A vederlo camminare per le strade, non si sarebbe data una buccia di arancia per quel pretuzzo tutto cappello, vestito di un abito polveroso, sotto un mantello verdognolo e ragnoso che faceva da staccio al vento, con un viso tinto proprio come il pesce fritto.

Le mani erano lunghe, magre, lucide, come i fusi d’ulivo, con unghie più forti degli uncini che tirano nel porto i barili e i sacchi del merluzzo.

Le gambette, asciutte come i stinchi dei santi, andavano a finire in due scarpe sconquassate, grandi come i burchielli che fanno il servizio di cabotaggio tra Napoli e Messina.

Prete Cirillo era un uomo pieno di denari, che egli aveva radunati un poco coll’usura prestando ai pizzicagnoli, ai pescivendoli, ai galantini della Sezione, e molto colle vincite al lotto. Si diceva che «u prevete» avesse i numeri e, coll’aiuto di certi calcoli cabalistici trovati da lui su un libro vecchio, vincesse al lotto ogni volta che gli piacesse di vincere. A qualcuno aveva anche regalati dei numeri buoni, ma il negromante era geloso e non si lasciava pigliare da tutti.