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la sua vita dissipata e colla sua bestiale empietà.
Al frate, al nichilista, al libertino si aggiungeva ora un pitocco disperato, costretto a quarantacinque anni a mendicare dieci lire alla sua guardarobiera, se voleva pranzare e bere un cognac.
Al club avevano pubblicato il suo nome nell’albo degli insolvibili, e poichè non pagava più i debiti del giuoco, tutti lo fuggivano ora come la lebbra.
Sì, il barone Carlo Coriolano di Santafusca si sentì veramente la lebbra addosso quel dì che il canonico amministratore del Sacro Monte delle Orfanelle gli mandò a dire per l’ultima volta che, se entro la settimana non restituiva una cartella di quindicimila lire, il Consiglio d’Amministrazione avrebbe denunciata la cosa al Procuratore del Re.
I Santafusca per antico diritto avevano parte nell’Amministrazione del Sacro Monte, e nella sua qualità di patrono e di consigliere «u barone» aveva più volte pescato nelle strette del bisogno in fondo alla cassa dell’istituto, dando false o poco solide garanzie. Ora i gruppi erano venuti al pettine.
Il canonico diceva chiaro:
— Se vostra eccellenza non rende a questa pia Casa la cartella di lire quindicimila, il Consiglio sarà nella dolorosa necessità di portare il fatto davanti ai Tribunali.