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strumenti, Ciro Stella, che aveva rilevata la bottega, molti compagni del mestiere, alcune vicine amiche della padrona, che più bella del sole sedeva a capo della tavola, tutta splendente di perle, di corallo e di robe d’oro.
Al momento dei brindisi entrò Gennariello il ciabattino, il disgraziato Gennariello, che per giuocare i numeri dati dallo zio aveva venduto i ferri del mestiere, e ora girava colla chitarra a cantare serenate e barcarole e tarantelle, con un cappello bianco, alto come una torre, ornato di piume, di fiori e di scope.
Per la gente onesta era un mistero perchè prete Cirillo avesse tradito il suo sangue e favorito invece a quel modo gli estranei; per i maligni il mistero si spiegava colla debolezza della natura umana, e anche fra i presenti c’era chi beveva con entusiasmo agli occhi belli e amorosi di donna Chiarina. Gennariello non aveva rancori con nessuno e accompagnava le sue canzonette con tali sgambetti e pulcinellate, che le donne e i ragazzi mandavano le grida fino al cielo.
Si era giunti al massimo fervore dell’allegria, quando i convitati sentono d’essere più che mai fatti a sembianza d’un solo, figli tutti d’un solo riscatto.
— Chi l’avrebbe detto, Chiaruzza, — diceva cogli occhi molli Filippino, — il dì che abbiamo aperta questa bottega con duecento scudi tolti a prestito e con dodici cappelli di