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mersa come il gabinetto in quella luce d’aria sporca, che dava alle cose un aspetto stanco e addormentato.

Stavano nel mezzo due canapè, l’uno di fronte all’altro, a capo dei quali era una poltrona grande, rovesciata come un lettuccio. In terra, nel mezzo, c’era un tappeto colla figura di una bestia feroce, che Paolino non seppe capire se fosse un leone o un pantera. Anche qui molte filze di corrispondenze con sopra un dito di polvere e molte tabelle piene di numeri e di ghirigori.

Sulla pietra del cammino, in compagnia di alcune scimmie e di alcune cicogne imbalsamate, spiccava il gesso d’una Venere vestita anch’essa di polvere.

L’uomo delle pantofole di corda tornò a dire:

— Si accomodi — e sparì ancora sotto la tenda.

Paolino, afferrato colle mani nervose alla tesa del suo cappello, come se si attaccasse a una sponda per non cadere, sedette sull’orlo di un canapè, provando una durezza dolorosa in tutte le giunture e un improvviso rammollimento di cuore e di cervello.

Sopra un tavolino, dentro un piatto, vide molti cartellini stampati, che dicevano:

Anita d’Arazzo, impareggiabile sonnambula, assistita dal celebre professor Fagiano di