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gionevole. Che cosa voleva dire, per esempio, quel pugnale lungo, acutissimo, posto su una tazza di bronzo tra due zampini di lepre come quelli che si usano per spolverare le scrivanie? E quella testa da morto in faccia all’usciolino, bianca e lustra come l’avorio, con una specie di sorriso sui denti?

La finestra a piccoli quadretti di un vetro verdognolo e affumicato sbatteva una luce languida e scialba sulla tappezzeria raggrinzata, coperta in gran parte da lunghe filze di vecchie carte, forse lettere, ricette, consulti, memoriali infilzati nei rametti di ferro, di cui erano pieni anche gli usci e gli stipiti.

Mentre Paolino, per fortificarsi nella realtà delle cose, andava osservando di qua e di là, vide di sotto al tappeto che copriva la tavola uscire un bel gatto d’Angora, stender le zampe, allungarsi, far arco della schiena, sbadigliare come chi si alza allora dal letto.

— Se il signore vuol passare.... — disse improvvisamente la voce grave del cerimoniere, comparso da un altro usciolino, che Paolino aveva creduto un armadio.

Scosso da quella voce, andò dietro alla guida. Passarono sotto una tenda, salirono due gradini di legno posti di sbieco nello spessore di due muri maestri e si trovarono nella sala dei consulti, molto più grande, ma im-