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trandolo sulle scale, si tiravano un passo indietro e lo guardavano in cagnesco come si guarda l’aiutante del boia.
— Ah, Signore Iddio! — pensava col capo basso — ci vuol proprio una gran fede per resistere! Aveva ragione il cavaliere: io mi mangerò il fegato, mi ridurrò in camicia e mi farò maledire. Se non fosse per quei poveri ragazzi, che non hanno colpa, a quest’ora sarei già scappato in America.
Veniva su verso la piazza Beccaria, urtando sotto le scosse del suo pensiero il muro, quando si sentì a un tratto arrestare da due braccia, che caddero dure e rigide sulle sue spalle come due timoni di carrozza.
— Sei tu, a Milano, oggi?
— Sono venuto a confessarmi in Duomo — rispose Paolino ridendo.
— Segno che hai dei peccati grossi.
— Hai fatto colazione?
— Non ancora.
— Allora vieni con me al Numero Cinque in piazza Fontana e la faremo insieme.
Paolino delle Cascine era vestito come un signore, con uno stiffelio di panno nero, aperto sopra un panciotto di velluto rossigno a fraschette, una cravatta bianca a bolle rosse, i suoi guanti neri, il suo cappello rotondo di feltro inglese, e una magnifica catena d’oro a grossi anelli che attraversava la bottoniera.