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Demetrio non c’era bisogno di cacciarlo via. Ci pensò lui a non lasciarsi vedere. Dopo il suo colloquio con Beatrice, dopo la scenata col Chiesa, dopo la predica amorosa del capo ufficio, bisognava essere un gran babbuino per lasciarsi tirare ancora in Carrobio.
Dopo tre o quattro giorni i ragazzi, non abituati a far senza di certe formalità, cominciarono a gridare, a picchiare, a piangere.
Arabella, smorta come un lino, taceva, si muoveva per la casa, comprimeva un certo che sulla bocca dello stomaco, e, di tanto in tanto, andava sul balcone a dare un’occhiata per il lungo di tutta via Torino, se mai vedesse, in mezzo al viavai immenso di tanta gente e di tante carrozze, un uomo che somigliasse un poco allo zio Demetrio.
Beatrice fece chiamare Ferruccio un paio di volte, un bel ragazzo svelto, che faceva il tipografo nella stamperia dell’Osservatore Cattolico. Arabella gli aveva promesso una grammatica francese e il bel ricciolone correva come una freccia, quando sentiva la sua voce in cima alle scale.
Ma dal momento che non c’erano più quattrini in mano, il fornaio, il lattivendolo, il pizzicagnolo non davano più nulla ai signori Pianelli.
Demetrio aveva dato delle belle parole a tutti; ma i signori bottegai non ne volevano