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dia, un sorvegliante, un’autorità per farlo menar via, ma non vide un cane tranne il suo.
E questo, duro, ostinato, gli andava dietro colla costanza di una bestia che non mangia da due giorni.
Provò ad affrettare il passo, a correre: e il cane dietro a correre anche lui.
Lo zio si fermò la terza volta, trasse il suo lungo fazzoletto di cotone turchino, fece un grosso nodo a uno dei capi, lo alzò come un flagello; ma Giovedì, facendo arco della schiena e piagnucolando, venne ad accosciarsi ai suoi piedi.
Che doveva fare? ammazzarlo?
Giunto finalmente sotto il portone del Demanio, picchiò nei vetri del portinaio e avvertì il Ramella con dei segni. Il Ramella guardò attraverso i vetri dell’antiporto, capì di che si trattava e venne fuori. Quando il cane vide in aria l’asperges, fuggì come il diavolo.
Demetrio giunse in ufficio con qualche minuto di ritardo, un’ora prima del suo capo, il cavalier Balzalotti. Arrivato al suo posto, che era un tavolo accanto a una finestra, difeso contro i colpi d’aria da un vecchio e logoro paravento, tolse prima di tutto il sigaro di tasca, lo guardò alla luce se c’era tutto e lo collocò come una preziosa reliquia sopra lo sporto della finestra.