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l'aristocrazia | 95 |
qualità di sindaco, aveva accompagnato Vittorio Emanuele a visitare Roma, dopo l’inondazione del Tevere, nel 1870; e dopo il 1872 in corte non si vide più. Nell’animo suo, mobile e debole, trionfarono gli scrupoli del confessore e quelli dei cortigiani. Seguitò a recitare il rosario in mezzo ai suoi figli, ginocchioni intorno a lui, e mai non volle gli si ricordasse, che una sera, al Tordinona, stando in piedi, dietro al Re, era stato obbligato ad alzare la tenda al passaggio dei ministri, nè volle mai ricordati i suoi rapporti, piuttosto intimi, col generale Lamarmora, luogotenente dopo il plebiscito, e al quale mancò ogni tatto nel governare la città. Il Doria morì nel 1876, e fu sepolto nella sua cappella di villa Pamphyli, largamente rimpianto come un gran galantuomo.
Quegli scrupoli religiosi, effetto di una educazione, di cui purtroppo permangono le tracce, erano del resto comuni a tutti i principi romani; e se qualcuno, finchè si sentiva sano e forte, mostrava spirito superiore, nulla nulla che s’infermasse un po’ gravemente, mandava immediatamente pel prete. Per citarne uno, don Filippo Barberini, morto a Parigi nel 1855, appena ammalatosi, fece chiamare da Roma il suo confessore, ch’era il padre oblato don Tommaso Mossi. L’azione del confessore e del curato era grandissima nelle famiglie patrizie, non solo come consiglio religioso, ma come guida nella vita pratica. Persino gli atti d’impazienza, cui le signore si lasciassero andare per le conversazioni noiose, per un cattivo pranzo, per una parola galante, per una premutina di piede sotto il tavolo, per una stretta di mano più forte del consueto, o per altri simili nonnulla, erano confidati al curato, onde giudicasse se fossero o non fossero colpe confessabili. Ed il curato conchiudeva quasi sempre per la confessione, che accomodava tutto, e colla quale i confidenti diventavano due, il parroco e il confessore. Nè era raro il caso, che di qualche segreto ricevuto fosse dall’uno o dall’altro informata la polizia, per qualche opportuno provvedimento, come accadde, nell’aprile del 1862, al conte Carlo Lovatelli, guardia nobile, il quale, perchè faceva la corte ad una bella ed innominata signora, fu punito con dieci giorni di esercizi spirituali, punizione che valse, naturalmente, a far scoprire il nome della peccatrice e ad accrescere lo scandalo.