leggicchiava un libro, ma alzando lo sguardo pronto ed acuto ad ogni passo, ad ogni parola che sentisse intorno a sè, vicino o lontano. Erano madre e figliuola, mi disse l’agente; avevano fatto il viaggio con lui l’anno scorso sul Fulmine: la madre aveva condotta la figliuola a perfezionarsi nel pianoforte in Germania: nate in Italia, oriunde spagnuole, stabilite nell’Argentina. La madre aveva una lingua da tanaglie, capace di far nascere un subbuglio in un piroscafo, rosa a tal segno dalla gelosia dei cenci, che ogni nuovo vestito di signora che apparisse a bordo, le era come un colpo di navaja nel fianco. — E che le pare della figliuola? — Non mi pareva nulla: una figura di educanda cresciuta male, senza sangue in corpo, da baloccarsi ancora con le bambole. — Ah! che granchio! — esclamò l’agente — mi scusi. — E mi tirò dall’altra parte della piazzetta per parlar più libero. Quel piccolo crostino a cui nessuno badava era un vero soggetto psichiatrico, da dar a studiare agli alienisti. Nel viaggio dell’anno prima, sul Fulmine, c’era uno degli ufficiali di bordo, suo amico, un bel giovane, che discorreva qualche volta con la madre, e che in tutto il viaggio non aveva forse scambiato venti parole con quell’acqua cheta bruttina, dalla quale