gior parte, bisognava riconoscerlo, eran gente costretta a emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto l’artiglio della miseria. C’eran bene di quei lavoratori avventizi del Vercellese, che con moglie o figliuoli, ammazzandosi a lavorare, non riescono a guadagnare cinquecento lire l’anno, quando pure trovan lavoro; di quei contadini del Mantovano che, nei mesi freddi, passano sull’altra riva del Po a raccogliere tuberose nere, con le quali, bollite nell’acqua, non si sostentano, ma riescono a non morire durante l’inverno; e di quei mondatori di riso della bassa Lombardia che per una lira al giorno sudano ore ed ore, sferzati dal sole, con la febbre nell’ ossa, sull’acqua melmosa che li avvelena, per campare di polenta, di pan muffito e di lardo rancido. C’erano anche di quei contadini del Pavese che, per vestirsi e provvedersi strumenti da lavoro, ipotecano le proprie braccia, o non potendo lavorar tanto da pagare il debito, rinnovano la locazione in fin d’ogni anno a condizioni più dure, riducendosi a una schiavitù affamata e senza speranza, da cui non hanno più altra uscita che la fuga o la morte. C’erano molti di quei Calabresi che vivon d’un pane di lenticchie selvatiche, somigliante a un impa-