Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
398 | sull'oceano |
quali vapori, accumulandosi in alto, quando l’aria è queta, si tingono di luce e la sfumano e la rifrangono con una forza di colori che vince ogni fantasia. Non appariva più all’orizzonte che una zona fiammeggiante, ma rotta in mille forme di cattedrali d’oro, di piramidi di rubini, di torri di ferro rovente e d’archi trionfali di bragia, che si sfasciavano lentamente, per dar luogo ad altre architetture più basse e più bizzarre, le quali finirono con presentare l’aspetto delle rovine ardenti d’una città sterminata, e poi d’una serie di giganteschi occhi sanguigni, che ci guardassero. E di sopra il cielo era oscuro, e il mare di sotto, nero. A quella vista, s’era rifatto il silenzio a prua, e gli emigranti guardavano, trasecolati, come se quello fosse un fenomeno arcano, proprio di quel paese. S’intravvidero alcuni isolotti: Lobos a sinistra, Gorriti a destra, poi l’isola di Flores, poi i fanali dei banchi d’Archimede. Il silenzio era così profondo a prua, che si sentiva distintamente lo strepito della macchina. Il piroscafo filava come una barca sur un lago.
Un emigrante esclamò: — Che bel mare!
— Non siamo più in mare, — osservò un marinaio, ch’era accanto a me. — Siamo nel fiume.