era un lavamento furioso, come d’una folla di cavatori usciti da una miniera di carbone, un tuffar di teste nelle gamelle, una musica di soffi e di sbuffi, e spruzzi d’acqua da ogni lato, che parea che piovesse. Molti spingevano vigorosamente il pettine a traverso a foreste capillari rimaste vergini da Genova in poi; altri, coi piedi nudi, si pulivan le scarpe a sputi e a cenciate; e chi spazzolava, chi sbatteva, chi passava in rivista i suoi panni spiegazzati e spelati. Il barbiere veneto, imitatore dei cani, aveva aperto bottega all’aria libera, vicino all’opera morta di sinistra, dove gli scorticandi, seduti in lunga fila come i turchi sulle piazze di Stambul, aspettavano il loro turno, grattandosi le guance a due mani e motteggiando fra loro. Si vedevano biancheggiare a centinaia colli e braccia nude di bimbi scamiciati e di donne in gonnella. Alcune si pettinavano l’una coll’altra, o spopolavano la testa ai ragazzi; altre rabbriccicavano in furia giacchette e calzoncini, o vuotavano sacche e valigie logore in cerca di panni freschi o di biancheria, e in quell’allegrezza che aveva ravvivato la cordialità, le famiglie si prestavano mille piccoli servizi, con grande ricambio d’insistenze e di ringraziamenti ad alta voce. Un fremito di vita giovanile correva da tutte le parti