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il morto | 291 |
so che me copo a lavorar, e che no cavo gnanca da viver, mi e mia muger. Mi emigro per magnar. Lù me consegiava de spetar, che i gh’avaria bonificà la Sardegna e la maremma, e messo a man a l’agro romano, che i gavaria verto i forni conomiçi e le banche, e che el governo gera a drio a megiorar l’agricoltura. Ma se intanto mi no magno! Oh crose de din e de dia! Come se ga da far a spetar co’ no se magna?
Incoraggiato dal mio consenso, allargò il campo del discorso, e cominciò a metter fuori quelle idee generali, che ogni uomo del popolo d’oggi ha più o meno confuse nel capo, intorno alle cause del malo andamento delle cose: si spende tutto a mantener soldati, milioni a mucchi in cannoni e in bastimenti, e quindi zo tasse, e alla povera gente nessuno ci pensa: le cose solite; ma che non paiono mai tanto vere e tristi come quando si senton dire da uno, che ne esperimenta gli effetti nella miseria propria, e a cui nessuna consolazione si può dare, neppur di parole. E giusto io pensavo, mentre egli mi diceva che dopo una giornata di fatiche non trovava sulla tavola che una zuppa di brodo di cipolle, e che la notte si svegliava per l’appetito, ma non si aresegava a mangiare per non scemare il pane ai figliuoli, che già l’avevano