tive di cui s’impinzano a Genova gli emigranti poveri e delle sacramentali scorpacciate che fanno all’osteria quelli che hanno qualche cosa. Anche quelli che non soffrivano avevan l’aria abbattuta, e più l’aspetto di deportati che d’emigranti. Pareva che la prima esperienza della vita inerte e disagiata del bastimento avesse smorzato in quasi tutti il coraggio e le speranze con cui eran partiti, e che in quella prostrazione d’animo succeduta all’agitazione della partenza, si fosse ridestato in essi il senso di tutti i dubbi, di tutte le noie e amarezze degli ultimi giorni della loro vita di casa, occupati nella vendita delle vacche e di quel palmo di terra, in discussioni aspre col padrone e col parroco, e in addii dolorosi. E il peggio era sotto, nel grande dormitorio, di cui s’apriva la boccaporta vicino al cassero di poppa: affacciandovisi, si vedevano nella mezza oscurità corpi sopra corpi, come nei bastimenti che riportano in patria le salme degli emigrati chinesi; e veniva su di là, come da uno spedale sotterraneo, un concerto di lamenti, di rantoli e di tossi, da metter la tentazione di sbarcare a Marsiglia. La sola nota amena di quello spettacolo erano i pochi intrepidi che, sopra coperta, uscivan dalle cucine con le gamelle colme di minestra